lunedì 12 marzo 2012

Controllo sociale, conflitto ed etichettamento

 La teoria del controllo sociale di sviluppa negli anni 50 e assume che tutti siano per natura devianti rispetto alle regole. Tutti vorremmo commettere reati ma non lo facciamo. I primi studi sul controllo sono di Durkheim che sosteneva che l’anomia fosse l’effetto di un controllo insufficiente. Per Nye la famiglia è uno specifico agente di controllo sociale. Abbiamo diversi tipi di controllo: interno, indiretto, diretto, soddisfazione dei bisogni legittimi.
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La teoria dei contenitori di Reckless, indica nei contenitori appunto i fattori che favoriscono il contenimento della condotta nell’ambito della legalità e occupano un ruolo centrale tra le pressioni e le influenze ambientali e gli stimoli interiori. Se i contenitori sono deboli prevalgono pressioni e stimoli che favoriscono il comportamento deviante. Limite della teoria il peso eccessivo dell’autostima in grado di isolare dalla delinquenza anche vivendo in un ambiente criminale. Per Hirschi tutti delinquerebbero se non fosse per il legame tra individuo e società. Il comportamento criminale per lui dipende dal vincolo che abbiamo con la società che si esplica in:

- attaccamento – nei confronti di altri significativi (famiglia, amici, scuola…)
- coinvolgimento – negli scopi approvati dalla società
- impegno – in attività conformiste
- convinzione – nel credere nei valori sociali
La teoria del basso autocontrollo di Hirschi e Gottfredson dice che tutti hanno le stesse motivazioni, ciò che varia è la capacità di controllare i propri comportamenti. I tratti individuali dell’autocontrollo si apprendono da bambini e quindi è importantissimo il modello educativo, occorre incidere sulla famiglia.

La teoria del conflitto trova spazio negli anni 60. Criminalità e violenza sono presenti in tutte le classi sociali ma quelle inferiori vengono definite criminali e devianti con più facilità perché sono prive di potere. Il primo teorico del conflitto è Marx che vede la realtà sociale in termini di lotta di classe tra i detentori dei mezzi di produzione e i lavoratori (classe del proletariato). La povertà aliena l’uomo e non gli lascia altra scelta che morire o rubare per sopravvivere. Il diritto è espressione della classe dominante. Ogni classe è spinta verso l’egoismo da influenze specifiche: classe ricca dall’istruzione e dalle opportunità, la media dalla lotta per la sopravvivenza e il proletariato dalle privazioni. Accanto ai marxisti ci sono i teorici del conflitto non marxisti come Coser che parla del "carpo espiatorio" come nemico interno in grado di destabilizzare la società retta. Goffman parla di macchie, stigma che determinate categorie si portano addosso (malati mentali, prostitute, handicappati) e che impedisce loro di sfuggire al ruolo di vittima sacrificale. Per Quinney e la sua teoria sulla realtà sociale del crimine, l’unica soluzione è il superamento della società capitalistica verso quella socialista. Pone l’accento su una ideologia del crimine determinata dalla classe dominante e basata su alcuni assunti per cui il crimine viene imputato alle classi basse che vengono più facilmente perseguitate, arrestate e trattate più severamente dalla giustizia penale.

Alla fine degli anni 60 soprattutto nella cultura anglosassone vi è una lettura del controllo delle classi alte sulle basse per mezzo delle leggi. Ergo la legge non è uguale per tutti.
Per Spitzer il problema del pluslavoro rende le classi basse come potenzialmente pericolose se escono dalla loro gabbia di "spazzatura sociale".

In questo senso importante è il lavoro della Scuola di Criminologia di Berkeley che dà origine al movimento della new left. In particolare Platt punta il dito sui cosiddetti movimenti per la salvezza dei minori che in realtà nascondono , dietro apparenti motivazioni filantropiche, una gestione discutibile del disagio e della devianza giovanili. tra gli orientamenti radicali vi è anche la criminologia anarchica che ha lo scopo di opporsi ad ogni forma di gerarchia. Le autorità per loro hanno il solo scopo di servire i gruppi di potere.

I teorici radicali si sono mossi dunque lungo due direttrici:

- elaborazione critica di una sociologia giuridica di tipo storico (proteggere la proprietà privata, ad es, ha lo scopo di mantenere le disuguaglianze di legge)

- origine del crimine partendo dall’assunto che il capitalismo è criminogeno

Sul finire degli anni 70 si diffonde un clima da tolleranza zero e si assiste all’affermarsi di un nuovo realismo di sinistra che spiega la criminalità partendo dai processi di privazione relativa e di marginalizzazione (non la povertà in se’ ma la povertà e la diseguaglianza vissute come ingiustizia determinano la criminalità).
La teoria dell’etichettamento, si diffonde nella metà degli anni 60 e porta alle estreme conseguenze la logica della sociologia del conflitto. Tannenbaum vede il comportamento deviante come conflitto tra un gruppo e la società nel suo complesso.

La teoria non spiega le cause della devianze e non segue un modello deterministico ma integra lo studio del comportamento con quello della reazione sociale. Quando un individuo viene etichettato come deviante dalla società (anche ingiustamente) la sola qualifica ne causa una reazione negativa con ovviamente ricadute e possibile adesione alla profezia che si auto adempie. Nell’etichettamento non è importante l’atto ma il sogg che viene etichettato.
Il processo di etichettamento si conclude per Lemert nell’interiorizzazione dello status da parte del’etichettato.

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